lunedì 9 marzo 2015

Poesia in Movimento (12 Novembre 2004)

Julius Erving

“Poetry in action”. Poesia in movimento.
Era la definizione a cui più spesso si ricorreva per descrivere nella sua totalità uno dei più grandi campioni che abbiano mai calcato un parquet di basket. Un giocatore straordinario. In campo e nella vita. Una definizione che rispecchiava il suo modo di stare in campo, la sua eleganza, la sua compostezza, ma anche il suo animo, la sua personalità, la sua disponibilità.
Dopo qualsiasi partita, vinta o persa, in cui avesse giocato bene o male, aveva sempre una fila interminabile di giornalisti davanti al suo armadietto. Lui rispondeva ad ogni singola domanda. Mai una parola sgarbata, mai un segno di insofferenza o di poca disponibilità. Lui era fatto così. Lui era, o meglio è, Julius Winfield Erving II. Per tutti semplicmente Doctor J. 

“Se non ci fosse stato il Doc, non ci sarebbe stato neanche Michael Jordan”.
Con queste parole lo stesso MJ rendeva omaggio il giorno del suo (secondo) ritiro al grandissimo Julius, il primo cestista a portare il livello del gioco costantemente al di sopra del ferro. Il primo vero grande uomo volante.
Julius Erving inchiodava a canestro palloni che stordivano ed umiliavano gli avversari.
Julius Erving staccava dalla linea del tiro libero e andava ad affondare schiacciate che galvanizzavano compagni e pubblico. Gli effetti di una sua schiacciata, delle sue celeberrime House Call, le chiamate a casa, erano assolutamente devastanti. Per i compagni, per gli avversari, per il pubblico che, amico o nemico, non poteva far altro che alzarsi in piedi ed applaudire, basito.
Nessuno ha mai volato come Erving. Aveva doti atletiche nettamente superiori a tutti i giocatori di basket mai apparsi su un parquet della NBA. Era dotato di due mani enormi a causa di una falange in più, che (storicamente si dice) gli permettevano di trattare la palla come fosse un’arancia. Ma soprattutto aveva un incredibile controllo del proprio corpo, grazie al quale riusciva a librarsi in aria e ad eseguire movimenti impossibili, in maniera pulita, composta, stilisticamente perfetta. Palla a terra, tecnicamente possedeva un uno contro uno a dir poco devastante.
La storia del Doc nella NBA inizia nel 1977, quando già aveva 27 anni e due titoli ABA alle spalle.
Quell’anno i Philadelphia Sixers arrivarono in finale contro i Portland Trail Blazers di Bill Walton. I Sixer erano una buona squadra con Collins e Joe Bryant (sì, proprio lui, il padre dell’ex 8 ora 24 gialloviola) come guardie, Julius Erving e Mc Ginnis come ali e Steve Mix e Darryl Dawkins a spartirsi il ruolo di centro. Ma era l’anno della “Blazermania” e Philly nulla potè per contrastare lo strapotere di Walton e compagni (L'Anno della Blazermania).
Erving giocò maestosamente, ma i suoi compagni non furono all’altezza. Al ritorno della squadra a Philadelphia, dopo la sconfitta in gara 6, i tifosi gli fecero trovare un cartello con su scritto “Julius we owe you one”. Julius, te ne dobbiamo uno. Di titoli, ovviamente.
Philly tornò in finale nel 1980 contro i Lakers. Era una squadra diversa da quella del ’77, più forte e più profonda. Ma dall’altra parte c’era la “magia” di un rookie a dettare le regole (Never Fear, E.J. is Here).
In gara 4 Julius mise a segno quello che pochi anni fa è stato decretato il canestro più spettacolare della storia della NBA.
In gara 5 Kareem si infortunò. Uscì dal campo. Rientrò nel quarto periodo per segnare 14 punti e portare i suoi alla vittoria. Quello che avvenne in gara 6, con Kareem fuori per infortunio è storia. La prestazione straordinaria di Magic e i Sixers che ancora una volta salutavano l’anello che si allontanava verso altre mete.
Nel 1981, la corsa dei Sixers si arrestò in una magnifica finale di Conference contro i Celtics. Philly si era portata sul 3 a 1. Ma poi diede vita ad un autentico suicidio collettivo. Perse al Garden la decisiva gara 7 (La Maledizione dello Spectrum).
Nel 1982 per Philadelphia ci fu la terza finale NBA in sei anni. La terza sconfitta. Ancora contro i Lakers. I Sixers venivano da una nuova terrificante battaglia nella finale della Eastern Conference contro i Celtics, piegati solo in sette tiratissime gare. In finale, nessun canestro miracoloso, nessuna prova mostruosa. Semplicemente la consapevolezza che Los Angeles era più forte e fresca. I Lakers avevano impiegato 8 partite per arrivare alla finale (due sweep). Philadelphia ne aveva impiegate quindici.
Ma non era solo questo. Philly, rispetto alle dirette avversarie, aveva qualcosa in meno. Sotto canestro, per la precisione.
Julius Erving era un giocatore deluso al termine della serie finale dell’82. Non aveva ancora vinto un titolo NBA e questo gli pesava maledettamente. Segnava regolarmente più di 20 punti a partita, tirava con più del 50% dal campo, era il giocatore più spettacolare della lega e quando andava in trasferta coi suoi Sixers, la gente faceva la fila per assistere al riscaldamento. Si narra volassero schiacciate da far letteralmente tremare gli impianti. Si narra che, dovunque giocassero i Sixers, gli spalti, come per magia, si riempivano con grande anticipo. Julius era idolatrato a Philadelphia come in tutti gli States, icona di quella NBA che riacquistava potere economico, diritti televisivi, pubblico, importanti fette di mercato, anche grazie a lui. Ma non aveva ancora vinto un titolo. Ed aveva già trentadue anni. Probabilmente gli anni migliori della sua carriera erano alle spalle. Ciò che mancava veramente ai Sixers ed al Doc per arrivare all’agognato anello era un centro di livello assoluto.
Qulacuno che potesse lottare sotto canestro con i vari Kareem, McHale, Parish.
Malone e Erving

Harold Katz, owner dei Sixers, quell’estate mosse le pedine giuste. In uno scambio a tre, spedì Darryl Dawkins nel New Jersey e Caldwell Jones a Houston, riuscendo così a metter le mani sul miglior centro della lega, colui che era soprannominato “The scoring-rebounding machine”, Moses Malone, fresco MVP stagionale con la maglia dei Rockets.
Moses cambiò gli equilibri di Philadelphia e della lega intera. Philly si ritrovò una squadra terribilmente forte, con Andrew Toney, Maurice Cheeks, Bobby Jones, Julius Erving e lo stesso Malone.
I Sixers vinsero 65 partite in stagione e si presentarono ai playoffs come la grande favorita. Erving segnò 21,4 punti a partita, Malone (ancora MVP della regular) ne segnò 24.5 e catturò 15.6 rimbalzi, anni luce davanti agli altri.
Al termine della season, Moses rispondendo ad una domanda di un giornalista su come sarebbero andati i playoffs, propruppe nella spavalda e storica affermazione: “Fo Fo and Fo”. Tre volte quattro. Il che equivaleva a dire, sweeppare le tre squadre che avrebbero incontrato durante la loro corsa al titolo.
Ci andarono maledettamente vicini.
Al primo turno, 4-0 ai Knicks.
4-1 a Milwakee in finale di Conference. Al termine di questa partita, Malone sorridendo, corresse: “Fo, Fi and Fo” (quattro, cinque e quattro). Non avrebbe più sbagliato.
In finale i Sixers trovarono ancora i Lakers. Ancora Magic. Ancora Jabbar.
Los Angeles aveva chiuso la stagione con un record di 58 vinte e 24 perse. Aveva aggiunto, ad inizio anno, il rookie James Worthy come meraviglioso tassello a quello che ormai iniziava ad essere conosciuto in tutto il mondo come lo showtime losangelino.
Worhty si infortunò prima dei PO, ritornò in tempo per la finale ma i guai dei Lakers non finirono lì.
Bob McAdoo e Norm Nixon ebbero problemi di infortuni durante tutta la serie e Jabbar si ritrovò da solo a combattere contro un Malone all’apice della sua carriera. Moses fu assolutamente devastante. Dominò sotto i tabelloni battendo il suo diretto avversario per 72 a 30 nella battaglia a rimbalzo. Una media di 18 rimbalzi a partita.
Philly vinse gara 1 per 113 a 107 e gara 2 per 103 a 93. Tutte le speranze dei Lakers erano riposte nelle successive due partite casalinghe. Gara 3 vinta fu vinta ancora dai Sixers per 111 a 94, con il Forum precipitato in un silenzio surreale e Nixon che abbandonò la partita nel terzo quarto per infortunio e fu costretto a saltare anche la successiva.
Gara 4 fu la partita più combattuta della serie. I Lakers volevano comunque salvare l’onore. Misero alle corde i Sixers. A due minuti dalla fine conducevano per 106 a 104. Philadelphia chiamò l’ultimo time out a disposizione.
Moses Malone, MVP delle Finals

Quando le due squadre tornarono in campo cominciò lo spettacolo targato Julius Erving.
“I’m taking over” furono le sue parole all’ingresso sul terreno di gioco. Il Doc rubò palla a Jabbar e andò a schiacciare per il 106 pari. Sull’azione successiva Magic mise un tiro libero, quindi possesso nuovamente ai Sixers. Maurice Cheeks servì Erving che andò in entrata, segnò, subì fallo, mise il libero e portò Philly sul più due. I Lakers andarono a cercare Jabbar sotto canestro per ristabilire la parità. Kareem subì fallo. Fece uno su due dalla linea: 109-108.
La partita sembrava ancora in bilico, ma Erving (modesto tiratore dalla distanza) era ormai entrato in trance agonistica. Ricevette palla poco dietro l’arco dei tre punti e fece partire una tripla. Solo rete.
Era il 112 a 108, Sixers, che chiudeva di fatto la partita.
“Non ho trovato io il canestro, è stato il canestro che ha trovato me” dirà ai microfoni Julius a fine partita, chiusa col risultato di 115 a 108.
Malone fu eletto giustamente MVP della serie finale, ma ad Erving non importava. Era riuscito a coronare il tanto sospirato sogno dell’anello.
Le parole con cui salutò la vittoria al termine della gara sono perfetta fotografia della sua sobrietà e della sua grazia:
Ho sempre cercato di dire a me stesso che il lavoro è l’unica cosa che davvero conta. Puoi vincere o perdere, ma ciò che realmente conta è lavorare duro per arrivare ai tuoi obbiettivi. Io l’ho fatto in questi anni, non sapevo se sarei mai riuscito ad arrivare dove sono oggi, ma l’unica cosa che potevo dirmi era che stavo dando il mio massimo in ogni singola partita, ogni singola notte. È questa, alla fine, per me era la cosa davvero importante.”
Poesia in movimento, appunto.



Articolo Pubblicato da The goat per PlayitUsa il 12 Novembre 2004  

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